Come ho cambiato lo sguardo

Ci scrive Marta che quest’anno ha seguito con suo figlio Riccardo il progetto Comuni-care e il laboratorio Di che colore è il vento: “Sono la mamma di un bimbo con disabilità. Un incipit ad effetto, non trovate? Appena la coppia di futuri genitori viene a conoscenza di aspettare un figlio i pensieri si popolano di tempi verbali ricchi di aspettativa e speranza: “vorrei che Lui/Lei …”, “mi piacerebbe che…”, “…potrebbe essere che…”… Quando nasce un figlio con disabilità il “vorrei” si trasforma in modo più o meno prepotente in “avrei voluto…” perché il senso di perdita prevale sul senso di fiducia nel futuro. Se gli “avrei voluto” sono di più dei “vorrei”, il rischio di bloccarsi e avere una visione statica del presente è molto alto. E qui arriva il cambio di sguardo. Fino a poco più di un anno fa vedevo mio figlio come un bimbo solare, sereno, portatore sano di gioia ma su una sedia a rotelle, con richieste primarie di attenzione; intelligente, si, ce lo dicevano tutti, ma immobile. Come un blocco di marmo prima dell’intervento dello scultore. Intendiamoci, un bellissimo blocco di marmo, lucente ma pur sempre un blocco. Poi Riccardo ha conosciuto Matteo e Ivana. Quel giorno è bastata una frase di Matteo per istillarmi un semino in profondità. Riccardo indica la porta della stanza di Matteo, noi adulti inconsapevoli e piccoli, gli diciamo tutti fieri “Si, è una porta! P O R T A.” Interpretando il segnale di Riccardo come una richiesta di nominazione. Matteo, mantenendo la calma e la pazienza (uff ‘sti genitori!), ci dice che Riccardo sa benissimo che quella è una porta ma lui vi sta chiedendo di andarci oltre, di portarlo a conoscere lo spazio che quella porta nasconde. Come?! Riccardo poteva davvero chiederci una cosa del genere? Poteva avere un pensiero cosi “in movimento”?…l’incredulità iniziale e la difficoltà di assimilare un concetto così complesso hanno lasciato spazio prima al dubbio…poi all’aspettativa e alla speranza (hai visto mai che…?), poi allo stupore. Siamo stati accompagnati nel nostro quotidiano, gradualmente, una goccia alla volta, a sviluppare una visione nuova. Non è stata un’impresa semplice e non credo di essere una diventata una campionessa in materia, ma sicuramente ora, e sempre più frequentemente, dove c’è un problema vedo anche un’opportunità mentre guardo crescere mio figlio. Tant’è che di fronte a momenti di maggiori difficoltà mi sento nella testa la voce di Ivana che mi offre una chance di vedere la stessa cosa da un’altra prospettiva…insomma quasi un Grillo-Ivana-Parlante. Perché ho capito che cambiare lo sguardo non vuol dire autoconvincersi di cose che non esistono e illudersi di vedere cose che non ci sono. Cambiare lo sguardo significa dare credito alla personalità del bambino, comprendere profondamente che la persona non è la sua disabilità, apprendendo così un concetto fondamentale: che prima di essere “un distrofico”, mio figlio è un Bambino; con tutti gli impulsi, le volontà, le intenzioni, le emozioni e le approssimazioni di un bambino di 7 anni. Nel corso di quest’anno ho imparato a giocare con mio figlio, ho imparato a capire che l’importante è stare dentro al momento insieme a lui e che la performance passa in secondo piano se non c’è una base di relazione e uno scambio quotidiano di “sguardi”. Quegli stessi sguardi che trasformano il blocco di marmo in una scultura. Di strada ce n’è ancora da fare ma quel semino è diventato una piccola radice alla quale riesco ad attingere con maggior facilità perché si è impiantata nel nostro terreno e si sta nutrendo delle nostre piccole cose quotidiane. Sono la mamma di un bimbo con disabilità. Scherzavo, sono la mamma di Richi.”