Come è nata CxC

Il nostro sguardo è cambiato da quando nel 1998 è nato nostro figlio Matteo con una grave disabilità per un’asfissia, colpevole, al parto. Il giorno della nascita di Matteo posso solo paragonarlo a un terremoto o a uno tsunami o a una di quelle catastrofi ambientali di cui si sente parlare al telegiornale, come una piena improvvisa di un fiume o un uragano, tu sei tranquilla, stai facendo la vita di ogni giorno ed ecco inaspettata, senza segni premonitori arriva la catastrofe che ti travolge e tu sei impotente e fragile e indifesa, tutto crolla e puoi solo ricostruire dalle macerie. I primi anni di vita di Matteo sono stati drammatici, le diagnosi infauste, tetraparesi spasticodistonica, impossibile muoversi e comunicare, sindrome di West con ripetute crisi epilettiche, difficoltà ad alimentarsi e continue infezioni respiratorie. Travolti dal dolore, dalla rabbia, ma anche dalle difficoltà a gestire una disabilità così complessa, abbiamo rischiato ripetutamente di affogare, ma non siamo annegati, la speranza, la rete di persone intorno a noi non ce l’hanno permesso. Allora abbiamo attraversato questo grande dolore, siamo arrivati al fondo della disperazione, della paura e dell’angoscia, e poi siamo risaliti, quando si tocca un fondo si può solo risalire e lentamente, lo abbiamo fatto, e abbiamo scoperto la Potenza creativa e trasformativa del dolore. E quando siamo riemersi dal baratro nel quale eravamo sprofondati, ci siamo accorti che il nostro sguardo era cambiato e che avevamo fatto molte scoperte ed abbiamo sentito il bisogno di comunicarle, perché altre famiglie con bambini con disabilità non sprofondino in quel baratro o che almeno la discesa sia un po’ più lieve e la risalita più veloce. Scoperte che non vogliamo imporre, né che pensiamo siano le uniche possibili, ma che per noi sono state preziose, ci hanno cambiato la vita e che vogliamo condividere. La prima cosa che abbiamo capito, che sembra banale ma che non lo è affatto, è che Matteo prima di essere un disabile era un bambino e come tutti i bambini aveva il bisogno di relazioni, di fare esperienze, di giocare e non solo di fare terapie nel tentativo di renderlo il più normale possibile. Ma soprattutto aveva bisogno di comunicare, cosa per lui impossibile data la totale assenza di linguaggio verbale. Ma siamo riusciti ad andare oltre il suo corpo immobile e abbiamo visto la presenza di un cervello pieno di pensieri e di un cuore pieno di emozioni che dovevano solo trovare il canale di espressione. In un processo lento che ha richiesto anni e fatiche, Matteo è riuscito a comunicare scrivendo con due dita su una tavoletta di legno con le lettere dell’alfabeto. Ed è finalmente riuscito a comunicarci i suoi pensieri profondi e bellissimi e ci ha rivelato la sua anima nascosta dietro il corpo immobile. E abbiamo scoperto che la vita di un bambino disabile e della sua famiglia può essere ricca di colori ed emozioni e non come un neurologo si premurò di dirmi: “Si prepari al peggio, rimarrà un vegetale” dimenticando però di omettere qualche piccolo e insignificante particolare, tipo che avrei potuto ridere a crepapelle delle battute di Matteo o commuovermi e piangere di gioia alla comunione e alla maturità di Matteo e imparare ad apprezzare ogni piccola cosa.Matteo ci ha accompagnato a capire che la disabilità è una diversa condizione dell’essere. La disabilità è generalmente vista come mancanza di qualcosa, ma non è una assenza, è una presenza diversa che va capita, non cambiata. E nella disabilità c’è libertà, sembra un controsenso, ma la libertà è nella possibilità di essere diversi, nel non dover per forza adeguarsi ai canoni socialmente imposti e nel poter essere se stessi. Se pensiamo che le persone disabili debbano essere come tutti gli altri allora non c’è libertà, ma se lasciamo che loro possano essere pienamente loro stessi senza imporre cambiamenti non possibili, allora saranno veramente liberi e questa sarà una massima espressione di libertà di cui dobbiamo assumere il rischio.Queste e molte altre sono le scoperte che abbiamo fatto ma mancava ancora qualcosa, mancava la risposta a una domanda fondamentale che senso ha la presenza della disabilità nelle famiglie e nella società? Matteo ci ha accompagnato a dare delle risposte e a dare un senso a ciò che vivevamo e abbiamo smesso di sentirci vittime di un errore umano o di un destino avverso. E abbiamo capito che è una questione di senso, di dare senso a una esperienza così intensa e permeante come quella di essere genitore di una persona disabile. La società, le associazioni rispondono per lo più a dei bisogni di assistenza, di diritti, di socializzazione e di integrazione, ma alla domanda: “che senso ha la mia disabilità o la disabilità di mio figlio nessuno o pochi rispondono”. Si diventa paladini dei diritti, si lotta per le ore di sostegno o il numero di pannolini da ricevere, tutte cose sacrosante e che una società civile deve assicurare ai suoi cittadini, ma la lotta, la protesta e la recriminazione sono anche il modo per sfogare la rabbia per una condizione considerata sfortunata. La domanda fondamentale a cui rispondere è quindi questa: che senso ha la presenza della disabilità nelle famiglie e nella società?: Non è quello del comune sentire e fintamente consolatorio: questi bambini sono speciali, Dio manda le prove a chi le può sostenere e così via. La prima risposta sul senso è che le persone disabili sono acceleratrici di evoluzione, motori di cambiamento, opportunità di cambiamento e di farci diventare persone migliori, se si riesce a guardare oltre il visibile. E guardare oltre il visibile non è lo scopo ultimo della nostra esistenza? Essere presenti qui, ma guardando all’oltre. Per cui essi sono portatori di luce e bellezza perché ci permettono di comprendere cose che altrimenti non sono immediatamente comprensibili. La seconda risposta ce l’ha detta Matteo: “L’amore supera il limite dei limiti” io mi sento felice perché sono molto amato. Il limite evidente ed innegabile imposto dalla disabilità, diventa l’opportunità per sperimentare il suo superamento attraverso l’amore incondizionato, l’amore per un figlio con disabilità è un amore incondizionato perché lo ami anche se non corrisponde alle aspettative che avevi su di lui, lo ami anche se non è in grado di fare niente, se non pensare come dice Matteo e ti prendi cura di lui senza aspettare nulla in cambio se non reciproco amore reciproco. Ed è l’amore la cosa più importante, da mettere al primo posto, con Matteo abbiamo ristabilito le priorità e smesso di affannarci per cose inutili e di poca importanza. Nella disabilita le fragilità sono messe a nudo, non possono essere nascoste, come di solito facciamo con le nostre personali fragilità, guardando a lui, abbiamo imparato a non nasconderle e ad avvicinarsi agli altri in un modo più vero, senza bisogno di maschere o corazze, possiamo essere veramente noi stessi senza finzioni o sovrastrutture. Matteo ci ha fatto vedere come le persone disabili perché sono molto limitate nel fare, siano molto nell’essere ma l’essere è molto più importante del fare e dell’avere. Un corpo immobile è pienamente nell’ essere, non fa cose ma il valore della sua esistenza è intrinseco. Questa è l’altra grande risposta, noi ci muoviamo, facciamo, ci affanniamo ma non accresciamo così né il valore né la durata della nostra esistenza. Ciascuno di noi vale perché è, non perché fa o possiede. Ed è questo che la disabilità ci fa comprendere e che dobbiamo insegnare a tutti i figli, che essi valgono perché sono, indipendentemente dalle loro prestazioni scolastiche e sociali. Questo non significa educarli al disimpegno, ma significa dire loro che non sono il brutto voto che hanno preso a scuola o il commento sarcastico dell’insegnante o del compagno. Queste e altre cose abbiamo capito in questi 20 anni insieme a Matteo e al nostro secondo figlio Iacopo che tanto ci ha aiutato anche lui. E per poter comunicare tutte queste scoperte ed accompagnare i genitori e tutti coloro che si prendono cura a dare un senso che è nata l’associazione. Attraverso le attività vogliamo aiutare le famiglie a superare il senso di esclusione, il sentirsi vittime e la segregazione che nella nostra società non subiscono solo le persone disabili ma anche i loro familiari e aiutare a comprendere il significato profondo della loro presenza, perché non venga vista solo in termini di assistenza e bisogni, ma diventi reale opportunità di cambiamento e di trasformazione delle relazioni, per costruire insieme un progetto di vita magari inatteso ma non per questo privo di bellezza e significato. Ivana Basile socia fondatrice CxC